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Il farmaco che rende amari: le sulfaniluree

La serendipità può in qualche modo essere obbligata. Lo dimostra la scoperta delle sulfaniluree, farmaci molto usati ancora oggi nella cura del diabete di II tipo, quello che di solito colpisce l'adulto. Questi farmaci sono stati scoperti come antidiabetici in due occasioni diverse e a distanza di anni, ma sempre attraverso il medesimo meccanismo serendipico.

La storia inizia nel pieno della Seconda guerra mondiale. Correva il 1941, e si poneva un problema sanitario di non facile soluzione: a causa delle cattive condizioni igieniche e alimentari, in Francia stava dilagando il tifo, per il quale non era nota alcuna terapia efficace. Su sollecitazione di Marcel Janbon, direttore della Clinica di malattie infettive dell'Università di Montpellier, la casa farmaceutica Rhone-Poulenc si era lanciata nell'avventura di scovare un farmaco attivo contro il batterio tifoideo. Dopo alcuni studi di laboratorio, i ricercatori fornirono a Janbon una molecola, anonima, se non per una sigla, 2254 RP. Si trattava di un sulfamidico, che venne subito utilizzato nell'Ospedale universitario di Montpellier. Considerata la gravità dei casi da curare, Janbon e i suoi collaboratori decisero di utilizzare dosi ben più alte rispetto a quelle consigliate dalla casa farmaceutica. Furono trattati una trentina di malati, tre dei quali morirono im maniera misteriosa e improvvisa. Iniziò una caccia al colpevole e, in un primo momento, si pensò a una grave forma di encefalite - allora frequente - visto che i malati, prima di morire, avevano avuto importanti disturbi neurologici.

Nessuno ipotizzò un'azione nefasta del sulfamidico impiegato, finchè, poco tempo dopo, un altro paziente entrò in coma. Si trattava di una coma ipoglicemico, dovuto cioè all'improvvisa caduta del tasso di zuccheri nel sangue, talmente marcato da impedire al cervello di funzionare per mancanza di energia.

Janbon riconobbe il classico quadro del coma ipoglicemico, ed ebbe l'illuminazione: il nuovo farmaco causava una grave riduzione dei livelli di zucchero nel sangue. Fece vari controlli ed ebbe conferma della propria ipotesi. Gli altri pazienti trattati avevano tutti una glicemia bassa.

Comunicò la sua osservazione alla casa farmaceutica, che valutò l'azione del sulfamidico nell'animale e arrivò alle medesime conclusioni: il 2254 RP, inaspettatamente, riduceva la glicemia, causando, ad alte dosi, la morte dell'animale. Di lì a pensare di usare il sulfamidico per trattare il diabete il passo fu breve, e si ottennero buoni risultati: il farmaco, preso per bocca, permetteva infatti un buon controllo della malattia.

Ma la guerra doveva fermare le ricerche di Janbon, che vennero presto dimenticate. Si dovrà arrivare al 1955 per avere l'ingresso ufficiale in clinica delle sulfaniluree (sulfamidici modificati in modo da eliminare l'azione antimicrobica e potenziare al massimo quella ipoglicemizzante).

Teatro della riscoperta fu Berlino, e primattore Hans Fuchs, infettivologo della locale Università. Fuchs non era a conoscenza dei risultati sorprendenti di Janbon, e usò un nuovo sulfamidico, analogo a quello usato anni prima dai francesi, per curare alcuni pazienti colpiti da polmonite.

Fuchs, decisamente più serendipico e cauto di Janbon, si accorse ben presto che i pazienti trattati con il farmaco avevano disturbi neurologici importanti: parlavano male, sembravano intontiti oppure in preda a un'eccitazione psicomotoria. Un assistente di Fuchs, non si sa se volontariamente o dietro caldo invito del proprio capo, provò allora a prendere una piccola dose del farmaco, per sperimentare di persona gli effetti sul sistema nervoso. In breve, provò una spiacevole sensazione di fame, accompagnata da brividi e intensa sudorazione: riconobbe immediatamente i segni di una crisi ipoglicemica e riscoprì così le virtù ipoglicemizzanti dei sulfamidici.

La vicenda delle sulfaniluree non può essere lasciata priva di un una meditazione sul modo in cui si è arrivati a individuare l'efficacia di un farmaco. Oggi non sarebbe possibile realizzare una simile scoperta. Il comportamento di Janbon e quello della casa farmaceutica non sarebbero infatti ammissibili, e le tre morti scatenerebbero una polemica infuocata.

In realtà, recentemente negli Stati Uniti è accaduto un episodio analogo utilizzando un nuovo farmaco, la fialuridina, per la cura dell'epatite.
Alcuni pazienti sono morti a causa della tossicità della molecola impiegata. In questo caso, però, prima di passare alla fase clinica sull'uomo erano state fatte le indagini sull'animale, che non ne avevano svelato la tossicità.

Altrettanto curioso può apparire il modo di procedere di Fuchs e del suo collaboratore, che ha ingerito un farmaco per valutarne gli effetti. A parte altri episodi famosi, come quello dell'LSD, l'"innamoramento" del ricercatore verso le proprie ipotesi è a volte tanto forte da spingerlo a sperimentare su se stesso. E' il caso per esempio di Barry Marshall, gastroenterologo dell'Ospedale di Freemantle, in Australia, che nel 1985 scoprì l'Helicobacter pylori, il batterio implicato in molti casi di ulcera e gastrite. Per dimostrare la fondatezza della sua ipotesi - che cioè il germe causasse un danno allo stomaco - bevve una coltura del batterio, stando malissimo, con nausea e vomito continuo per una settimana. Dimostrò così la propria tesi ma, a quanto dichiararono in seguito i suoi collaboratori, per due settimane divenne irascibile e assolutamente intrattabile.

 

  

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