17.01.2001
Cellule staminali e favole indiane

Il ringiovanimento delle cellule staminali scoperto a Cambridge potrebbe essere uno storico errore


L'antica leggenda indiana dei principi di Serendip narra la storia di tre giovani, fortunati e astutissimi, che partirono per cercare una cosa trovandone sempre altre più utili e interessanti. Ancora oggi la fiaba indiana rivive in un'evocativa parola della lingua anglosassone: serendipity. È per serendipity che un evento inaspettato, un banale errore interpretato con sagacia si trasforma in una scoperta importante e inattesa, a volte in un campo lontanissimo da quello che si stava esplorando.
Abbiamo tutti un debole per le storie di serendipity, forse perché, in un epoca di investimenti miliardari che lasciano ben poco spazio alla scoperta fortuita, ci ricordiamo con nostalgia di quando scienziati geniali potevano scoprire gli antibiotici grazie a una muffa cresciuta per sbaglio, di quando una lastra fotografica indebitamente posata su un sasso radioattivo poteva diventare la prima radiografia della storia.
L'ultima notizia di serendipity, raccontata in questi giorni dal «Times», sta facendo il giro del pianeta e rischia, se confermata, di rivoluzionare la ricerca biomedica mondiale. Una giovane e sconosciuta immunologa di origine saudita, Ilham Abuljadayuel, durante un esperimento di routine avrebbe dimenticato di aggiungere un ingrediente alla mistura che doveva uccidere dei globuli bianchi. Incredula, dopo poche ore si sarebbe accorta che le cellule così trattate, lungi dall'esalare l'ultimo respiro, avevano invece azzerato il programma genetico che le aveva portate a essere adulte per tornare bambine, cellule staminali pronte a dare origine a nuovo sangue.
Grazie a un esperimento maldestro, ecco a portata di mano la pietra filosofale della moderna medicina, quella per cui gli istituti di ricerca pubblici e privati in tutto il mondo stanno spendendo fior di miliardi: se così fosse, un pugno di cellule prelevate da un qualunque tessuto potrebbe presto fornire ricambi utili ai trapianti, alla cura di tumori e di malattie degenerative; il dibattito etico sull'utilizzo delle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica verrebbe di colpo azzerato, sbaragliato dalla possibilità di usare praticamente qualunque cellula del nostro corpo.
Se però rileggiamo la notizia armati di buon senso e di un po' di spirito critico notiamo subito che ci sono un po' di cose che non quadrano. A quanto pare, nessuna rivista scientifica avrebbe accettato di pubblicare i risultati della ricercatrice saudita, e l'unico spazio a lei concesso è stato un breve e informale seminario all'Università di Cambridge, poco prima di Natale, davanti a un manipolo di studenti. Com'è possibile che una scoperta di così grande rilievo sia stata accolta con tanta freddezza dalla comunità scientifica? Se è vero che la storia della scienza straripa di scoperte rivoluzionarie ingiustamente snobbate al loro apparire, l'esperienza insegna a trattare con estrema cautela tutte le notizie che aggirano la rigida selezione imposta dai grandi giornali scientifici. È probabile che i revisori incaricati come sempre avviene dai giornali abbiano giudicato insufficienti, se non addirittura errati, i dati della ricercatrice saudita. Intanto, incurante dei sospetti che aleggiano sul suo clamoroso annuncio la fortunata (speriamo) ricercatrice si è già premurata di assicurarsi una dignitosa pensione, brevettando la sua scoperta e mettendo in piedi dal nulla una biotech company, sede Dublino, con a capo il marito Ghazi. Anche se l'odore di bufala si diradasse e la fiaba della giovane baciata dalla serendipity avesse un lieto fine, non è detto perciò che potremo condividerne gratis le gioie e i vantaggi.

Sergio Pistoi

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