Vittorio Messori è sicuramente il più noto degli scrittori
cattolici italiani. Il suo "Ipotesi su Gesù" ha venduto
più di un milione di copie solo in Italia; autore di almeno
una dozzina di titoli, il suo ultimo exploit è stato il
colloquio con Giovanni Paolo II, (Varcare la soglia della
speranza) già tradotto in 53 lingue. Messori è un
agiografo che difende la fede e la religione cattolica in
particolare riaffermando con forza la storicità della figura
di Cristo, delle narrazioni evangeliche e dei miracoli. I
miracoli, come fatti inesplicabili dalla scienza o addirittura
contrari alle leggi di natura note, sono formalmente fenomeni
paranormali, e dunque molti studiosi, indipendentemente dalle
loro credenze religiose, ne sono incuriositi perché tramite
essi si potrebbe forse ingabbiare la "preda sfuggente" della
parapsicologia. Tutti costoro non potranno che trovare
l'ultima fatica di Vittorio Messori assolutamente
irresistibile. ("Il Miracolo", Rizzoli, 1998. 253 pagg., L.
28.000; 32 tav. a colori f. t.)
SFIDA AGLI SCETTICI
Tutto il testo è una esplicita sfida agli scettici, agli
increduli.
"Crederei ai miracoli solo se mi dimostrassero che una
gamba tagliata è ricresciuta. Ma questo non è avvenuto e non
avverrà mai."
Questa frase, ripetuta nel corso degli anni da Felix
Michaud, Jean Martin Charcot, Émile Zola, Ernest Renan, ci
spiega ora Messori, si ritorce come un boomerang contro chi
l'ha pronunciata. Infatti almeno una volta l'impossibile
per eccellenza, il "prodigio dei prodigi" , si è verificato.
A Calanda, villaggio dell'Aragona, nella notte del 29
marzo 1640, al giovane contadino Juan Pellicer rispuntò di
colpo la gamba destra, amputata più di due anni prima
nell’ospedale di Saragozza. Il fatto avvenne per intercessione
della Madonna del Pilar, venerata appunto a Saragozza, [ivi
ella sarebbe apparsa a San Giacomo, trasportata da un gruppo
di angeli, su un pilastro di pietra, nell'anno 40, dunque
mentre era ancora in vita a Gerusalemme]. E il prodigio della
gamba sarebbe stato attestato dopo soli tre giorni da un
protocollo notarile, e poi da un processo ecclesiastico con
decine di testimoni oculari. Conoscenti, medici, sacerdoti,
tutti confermano che sì, si tratta proprio di Miguel Juan, che
prima aveva una gamba tagliata, e ora ce l'aveva di nuovo
attaccata: un po’ rattrappita, per i primi giorni, ma poi
uguale a quella di prima. Perfino con le stesse cicatrici, e
un segno rosso circolare sotto il ginocchio, dove era stato
operata la "saldatura" miracolosa. L'evento divenne
celeberrimo in tutta Europa, e addirittura Pellicer si recò in
udienza a Madrid, dal re Filippo IV, che volle baciargli la
gamba restituita. Poi sull’evento calò un silenzio
("sospetto") che è ora rotto da Messori, il quale si è recato
più volte sui luoghi stessi, ha indagato negli archivi, ha
interrogato gli storici aragonesi, fornendoci questa
straordinaria cronaca di un evento "impossibile" e insieme
storicamente comprovato in modo ufficiale.
TONI POLITICI
Prima di entrare nel merito del prodigio, ammesso che sia
possibile farlo, occorre spendere alcune parole su questo
inconsueto libro. Duecentocinquanta pagine di gusto
lievemente retro, che ricorda vagamente lo stile tipografici
di certi volumi degli anni Trenta o Quaranta. Nei titoli le T
maiuscole sono trasformate in piccole croci. Messori non è
tenero con i suoi "avversari" in materia di fede. Ma il tono
si fa anche politico, quando, descrivendo il suo viaggio in
Spagna verso Calanda, ricorda ogni due pagine le efferatezze
delle truppe comuniste (sempre chiamate "los Rojos", i Rossi)
compiute in quei villaggi, durante i terribili anni della
Guerra Civile, ai danni del popolo religiosissimo. Messori non
se la prende solo con los Rojos. Pare estendere la sua
antipatia antimodernista addirittura a Napoleone Bonaparte:
"Usurpatore venuto dalla Francia", "combattuto come fosse
davvero l’Anticristo" che "provocò il furore di queste genti
coraggiose, refrattarie ai valori ‘giacobini’ imposti con le
baionette straniere e aggrappate alla loro fede cattolica". E
uno dei motivi di odio per Napoleone ("sanguinario parvenu che
si era autoproclamato imperatore") da parte del popolo
spagnolo, apprendiamo, fu la decisione di abolire l’amata
Inquisizione. Questa istituzione era "onnipresente in
Aragona, nella sua lotta contro ogni ‘nuova devozione’, ogni
‘nuovo miracolo’, ogni traccia di possibile ‘fanatismo’ che
minacciasse l’ortodossia. ... Al contrario di quanto vuol far
crederci la ‘leggenda nera’, l’Inquisizione godeva
dell’appoggio pieno e convinto di ogni classe sociale, a
cominciare dal popolo, che vi aveva visto un riparo contro i
temuti moriscos e marranos." Insomma, pare di capire che
la Spagna del Seicento (la stessa de I promessi sposi di
Manzoni) era il migliore dei mondi possibili: niente
giacobinismi, repubbliche, rivoluzioni; ma un popolo che stava
al suo posto, povero ma dignitoso perché tale era il volere
della Provvidenza; dei ricchi che si facevano obbligo della
carità e dei valori della solidarietà cristiana; dei Re
cattolicissimi come il loro popolo, e l’Inquisizione che
vegliava su tutto. Come stupirsi se in quei tempi e in quei
luoghi avvennero i più straordinari miracoli della storia?
Messori, ad un certo punto, si meraviglia di avere
ignorato per tanto tempo il prodigio di Calanda: "com’è potuto
avvenire che il cronista che qui scrive, per tanto tempo non
ne abbia avuto notizia? (...) Non ovviamente perché il
cronista in questione si creda onnisciente... il fatto è che
da quando una sorta di imprevista e improvvisa evidenza
interiore mi ha sospinto, malgré moi, verso una dimensione
religiosa sino a quel momento estranea, null’altro ho fatto
che indagare sulle ‘ragioni per credere’ nella verità del
vangelo." Eppure bastava leggere un economico Oscar
Mondadori (I miracoli, di Alfred Läpple, p. 127) per trovare
il miracolo di Calanda e anche altri altrettanto
"impossibili", tutti con tanto di testimoni attendibili, anche
se non con un atto notarile. Oltre a S. Teresa d’Avila,
che levitava dal suolo e sul cui cuore, appena morta, fu
trovata la ferita che, in vita, le avrebbe lasciato la spada
di un angelo (Salamanca, 1582), ecco la gamba deforme di una
suora, senza rotula e senza calcagno, che si riallunga di
dodici centimetri (Avallon, Francia, 1710); ecco un bambino
con due lingue che ne perde miracolosamente una (Annecy,
Francia, 1654), un altro, morto col collo rotto per una
caduta, che rivive (Castelnuovo, Italia, 1678); ecco un bimbo
di due anni, senza ossa dalla vita in giù, che le riacquista
(Leonessa, Italia, 1739); ecco un bimbo affogato da due
giorni, che resuscita (Ornay, Francia, 1623)... Sembra
chiaro che Dio volesse testimoniare la sua solidarietà con la
Chiesa Cattolica Romana in pieno periodo di Controriforma,
dopo la rivoluzione protestante.
LIBERI DI NON CREDERE, OBBLIGATI A NON CREDERE
Messori affronta altri due argomenti interessanti. Uno è la
teoria che "solo il credente è veramente libero: anche di non
credere". Il secondo è che Dio non amerebbe forzarci a credere
con segni troppo chiari. Il primo ragionamento è ben
sintetizzato dalle parole di G. K. Chesterton: "Un credente è
un signore che accetta un miracolo se ve lo obbliga
l’evidenza. Un non credente è invece un signore che non
accetta neppure di discutere di miracoli, poiché a questo lo
obbliga la dottrina che professa e che non può smentire".
Potrebbe essere che l’autore di Padre Brown abbia ragione, ma
vale la pena di riflettere su questo sillogismo, poiché si
accusano spesso gli scettici di "non credere nemmeno davanti
ai fatti". Il problema, intanto, è che esistono vari gradi di
improbabilità negli eventi. Quanto più un avvenimento è
straordinario, tanto più certe devono essere le prove addotte
a sostegno ( ma naturalmente, non sempre ciò che rappresenta
prova conclusiva per qualcuno lo è per tutti.)
L’argomentazione di Messori è curiosa anche perché, poche
pagine oltre, egli ci ricorda come Padre Gemelli, prima laico
e incredulo, dopo aver esaminato alcuni miracoli di Lourdes,
si convertì alla fede diventando francescano. E lo stesso
Messori ammette di essere stato, inizialmente, estraneo a
tematiche religiose. Sembra dunque che anche gli scettici
possano cambiar idea. Ma anche il secondo ragionamento
lascia perplessi. Riassumendo, Messori si stupisce di un
miracolo così inaudito. Tutti i credenti lo avrebbero voluto,
con tanto di notaio a certificarlo, perché invece, di solito,
tutti gli altri miracoli erano pur sempre come velati da
qualche residuo dubbio che di miracolo poi non si tratti:
"Si resta, dunque, con un senso di incertezza, di
insoddisfazione": perché Dio non dà una volta per tutte un
segno inequivocabile?
La risposta di Messori, con Pascal, è che Dio ci vuole
lasciare liberi.
"Il Dio cristiano ha stabilito di dare abbastanza luce a
chi vuol credere ma di garantire abbastanza ombra per chi non
vuole credere. Un Dio che ama il chiaroscuro, che vuole farsi
cercare dalle sue creature, quasi giocando a rimpiattino con
loro. "Se si scoprisse interamente, non ci sarebbe alcun
merito nell’adorarLo; se si celasse del tutto, sarebbe
impossibile la fede..."
I concetti si ingarbugliano un po’. Il miracolo di Calanda,
nella sua clamorosità, contraddice l’idea di un Dio che non ci
vuole forzare a credere in lui, e Messori non se ne sa
spiegare il perché. D’altra parte non si sa spiegare nemmeno
perché poi esso non sia stato sfruttato dalla Chiesa cattolica
come "arma definitiva" contro gli scettici (e forse, tanto
definitiva quest’arma non doveva essere, se fu presto
dimenticato, e se i non credenti e gli scettici sono, semmai,
in aumento). Degli altri miracoli, chiamiamoli "normali",
è affermata in definitiva la costante mancanza di certezza
assoluta; ma allora, contraddicendo quanto si diceva prima, si
giustifica in qualche modo anche la posizione degli scettici.
In fondo si ammette che, anziché dubitare per partito preso,
costoro possano avere delle ragioni. Ma torniamo alla
gamba ricresciuta con tanto di attestato notarile. Messori
è giustamente fiero di avere riportato alla ribalta questo
miracolo, e sornionamente, mostrando i sigilli legali e le
firme dei testimoni, chiede ai lettori di aiutarlo per favore
a dubitare, a scoprire di quale inganno e di quale inghippo
potrebbe mai trattarsi, se non fosse un miracolo. Messori
si può tranquillizzare: scoprire un "inganno" sulla base di un
rapporto scritto è quasi impossibile. Occorre riflettere
sulla natura dei resoconti scritti.
STORIA E SCIENZA
Il resoconto di un esperimento scientifico è una sorta di
"ricetta" che altri possono ripetere e riprodurre, ottenendo
risultati simili, su sistemi fisici (o su molecole, o su
specie viventi) simili. Si potranno dare casi di fenomeni rari
o inusuali, o anche non riproducibili in laboratorio, come
certi fenomeni atmosferici, ma essi devono pur sempre
sottostare alla legge che "date certe condizioni, si deve
verificare il dato fenomeno". Un resoconto storico o una
cronaca, invece, si basano, per definizione, su fatti avvenuti
una volta sola e non più riproducibili a piacere, quindi non
passibili di verifica sperimentale. La certezza degli storici
non sarà mai della stessa natura di quella dei fisici, dei
chimici, dei biologi, degli psicologi sperimentali. La verità
storica si basa su documenti che possono essere tra loro
confrontati, per verificarne per esempio la reciproca
congruenza, ma ha più un valore di probabilità che di certezza
scientifica. Basterebbe riflettere su come anche oggi,
nell’epoca dei media, accada che si scoprano certe notizie
grottescamente deformate rispetto ai fatti, per capire quali
dubbi celi la storia che leggiamo sui libri di testo e che si
riferisce ad avvenimenti di secoli fa. Spesso i miracoli e
altri prodigi si trovano descritti (anche in epoca
precristiana e in altre civiltà o religioni) come se si
trattasse di fatti di quasi ordinaria amministrazione, in modo
aneddotico e senza alcun rigore. E’ vero: il miracolo di
Calanda è attestato meglio, addirittura da un notaio (è
inserito nel libro degli atti del notaio Andréu tra testamenti
e ipoteche). Il punto però è che il motto che "fatti
straordinari richiedono prove straordinarie" è intrinsecamente
difficile da applicare alla storia per i motivi detti prima.
Il prodigio resta là, inverificabile e irriproducibile, con
testimoni che non si possono "controinterrogare": una cronaca
perfetta su dei fogli di carta, forse ancora una volta aperta
alla fede o allo scetticismo. Le "certezze della storia"
sono forse tanto maggiori quanto più i fatti che descrive sono
generali, e documentati in modo concorde dalle fonti, dai
documenti, eccetera. Per fatti specifici e molto particolari
(che cosa fece esattamente il tal personaggio storico in un
preciso giorno), però, spesso ci si basa su una sola cronaca.
Talvolta non è facile attribuire ad essa il giusto grado di
credibilità. E che succede se le fonti sono solo due, e in
contrasto tra loro? I resoconti di fatti straordinari in
particolare, e comprendiamo in questi anche descrizioni
moderne di fenomeni paranormali, sembrano poi godere di altre
due strane e costanti caratteristiche, che chiameremo
l’effetto "specchio deformante" e l’"effetto Blackmore".
Il primo indica che, in base all’esperienza dei
ricercatori del paranormale e del misterioso, si verifica di
regola che i resoconti di tali fatti sono ingigantiti e
deformati. Nella maggioranza dei casi si scopre che i fatti
erano molto, molto più prosaici di come sono stati presentati.
Alcuni particolari per esempio risultano del tutto inventati,
altri mal riportati, altri incredibilmente fraintesi, altri
banali. Anche solo nella nostra limitata esperienza di
miracoli, esistono infine, per alcuni fenomeni periodici
(riguardanti San Gennaro, o la Pietra di Pozzuoli, ecc.)
descrizioni così colorite e dettagliate, corroborate da
testimonianze autorevoli, da sembrare impossibile dubitarne.
Eppure non ne esistono di simili in altre cronache, né prima
né dopo, e tali fatti oggi non sono osservabili. Come
valutarle? La chiesa stessa e i suoi agiologi si stringono
nelle spalle e preferiscono sorvolare, o minimizzarle. L’
"effetto Blackmore" prende il nome dalla psicologa Susan
Blackmore (v. S&P °°°) la quale ha speso tutta la vita a
inseguire un vero fenomeno paranormale andando a verificare
criticamente, negli stessi laboratori ove essi erano stati
condotti, tutti i migliori lavori scientifici pubblicati nel
campo della parapsicologia. Lavori che, sulla carta,
apparivano perfetti e senza difetti; invece alla prova dei
fatti, gli esperimenti si dimostravano deboli, sottilmente
errati, i risultati non erano più riproducibili e talvolta
davano addirittura adito a sospetti di frode. Di
pubblicazioni formalmente perfette vi è sempre abbondanza in
letteratura; fino a quando non ci sarà uno "scettico
militante" che si prende la briga di fare ciò che faceva la
Blackmore, ovvero una verifica, si potranno anche accettare
quei lavori sulla fiducia. E quando si tratta di lavori non
verificabili (perché vecchi o per vari motivi), si ricade nel
discorso sui limiti delle indagini storiche ai quali si faceva
cenno poco prima. Il discorso si allargherebbe troppo se, a
questo punto, si parlasse della presunta, o difficile,
riproducibilità di certa "scienza controversa" (valga di
esempio per tutte il fenomeno della cosiddetta "fusione
fredda"); ma per tornare ai fenomeni "incredibili", si può
uscire da questo impasse? Sarebbe possibile solo se si
trovasse finalmente l’esperimento paranormale riproducibile a
piacere da chiunque si ponga nelle adeguate condizioni di
osservazione. Sarebbe possibile (rinunciando all’idea che Dio
ci voglia lasciare liberi anche di non credere) solo se
esistesse un miracolo inequivocabile, ma anche ripetibile,
periodico, o permanente, che possa essere osservato a piacere
da tutti. Un luogo di culto, come una "super-Lourdes" ove le
gambe continuino a ricrescere, o dove i morti resuscitino. Una
cattedrale - o magari anche soltanto un piccolo crocifisso -
che a dispetto di tutte le leggi naturali se ne stia sospeso
per aria, fisso per sempre a tre metri dal suolo; così che
tutti i fisici del mondo (e gli illusionisti!) lo possano
vedere. O forse allora il paranormale finirebbe per essere
spiegato e diventare "normale"? Intanto, anche Lourdes
sembra un po’ in ribasso quanto a luogo deputato alla
"produzione di miracoli", se è vero che per vent’anni non ne è
stato più dichiarato uno. Quanto ai miracoli non medici e
ricorrenti, il più famoso del mondo - pur non essendo un
miracolo ufficiale - è quello della periodica liquefazione del
sangue di San Gennaro a Napoli. Anche in questo caso si vede
quanti e quali dubbi esso abbia generato e continui a
generare. Non è esagerato dire che la sua fama è inversamente
proporzionale alla quantità e qualità dei test scientifici che
sono stati fatti su quella misteriosa ampollina.
AVVOCATO DEL DIAVOLO
Torniamo nuovamente al resoconto notarile della gamba di
Calanda. E’ comprensibile che, nonostante tutto ciò che
abbiamo detto e premesso poc’anzi, questo documento si legga
con grande interesse. E’ inevitabile chiedersi se i fatti si
siano veramente svolti come descritti e se tutto sia
verosimile, o se vi sia stato qualche grossolano "inghippo",
un fraintendimento, un errore... E’ inevitabile indulgere
in qualche speculazione, probabilmente del tutto inutile, da
"avvocato del diavolo" e cercare di capire se, leggendo in
trasparenza i fatti, apparentemente così limpidi, se ne
intravedono i fili di una filigrana sospetta. [NDR: la
figura del cosiddetto "avvocato del diavolo" è stata abolita
nei processi di canonizzazione dall’attuale pontefice,
Giovanni Paolo II] Se non fu un miracolo, che cosa
potrebbe essere successo in realtà? Vediamo intanto
brevemente su quali documenti si basa il "caso". Messori nel
suo libro riporta l’atto del registro del notaio Andréu di
Mazaléon ( due paginette) redatto a soli tre giorni dal fatto
prodigioso, che è la fonte prima della documentazione. Sono
citati alcuni testimoni, ma non esiste la trascrizione delle
loro testimonianze. Un processo ufficiale fu tenuto a
Saragozza dopo due mesi. Le deposizioni dei testi questa volta
esistono nelle 63 pagine degli atti. Sarebbe interessante
leggere con quali parole esatte i fatti furono descritti, se
vi sono incongruenze e contraddizioni tra i 24 testi,
eccetera. I documenti si trovano in Spagna, e possiamo solo
sperare che anche il lettore comune possa, prima o poi, averne
lettura per una specie di "controllo incrociato". Del
documento del processo di Saragozza non esiste più
l’originale. La copia eseguita per il Municipio si perse nel
1808 durante gli assedi francesi. Della copia (redatta insieme
all’originale) in possesso della Curia si perdono le tracce
appena prima della Guerra civile di Spagna, agli inizi degli
anni Trenta, quando esso fu affidato ad un monaco. Del suo
contenuto esistono comunque versioni integrali a stampa, del
1829, 1872 e 1940. Vi è inoltre una "copia autenticata", coeva
degli originali persi, ancora consultabile negli archivi del
Santuario del Pilar. Ma seguiamo la storia dall’inizio.
Miguel Juan Pellicer nacque a Calanda, villaggio aragonese
allora di circa mille anime, nel 1617, secondo di otto
fratelli e sorelle. Dagli atti notarili risulta che egli
nacque da solo (e ciò fugherebbe il sospetto di un fratello
gemello, avanzato da taluni); però negli atti del processo,
stranamente, vi è traccia solo di una sorella, e nessuno degli
altri figli compare o viene mai citato (Non avendo notizie
degli altri fratelli, non si potrebbe comunque escludere la
presenza di un fratello, di poco più giovane o più vecchio, e
ugualmente molto somigliante). Il giovane Juan a vent’anni
si trasferisce dallo zio materno Jaime Blasco a Castellòn de
la Plana, ove dopo pochi mesi cade sotto un carro e si
frattura malamente una gamba. Viene portato a Castellòn e
poi all’ospedale più vicino, a Valencia. (Esiste una nota
d’ingresso a suo nome in data 3 agosto 1637). Da qui, dopo
soli cinque giorni di tentativi di cura ritenuti infruttuosi,
egli decide di recarsi al famoso Real y General Hospital de
Nuestra Señora de la Gracia a Saragozza. Non si capisce come
qualcuno sperasse di sanare una gamba malamente fratturata in
soli cinque giorni, né sulle testimonianze di chi si basi
questa affermazione. Comunque il giovane si reca a Saragozza,
a piedi o mendicando passaggi su carri, percorrendo ben
trecento chilometri con la gamba fratturata legata dietro la
coscia (fatto che già ha dell’incredibile, se si pensa ai
dolori che provoca una gamba fratturata a ogni minimo
movimento). In questo viaggio, durato ben cinquanta giorni,
egli non passa da Calanda, che si trova proprio sulla via, ma
fa un girodiverso, per Teruel. Per non farsi vedere in quello
stato miserevole, ci dicono. Fatto sta che a Calanda non lo si
vede mai con la gamba fratturata e malconcia. Una gamba
fratturata dopo quaranta giorni potrebbe anche essersi
saldata; invece a Saragozza, dopo vani tentativi di salvare
l’arto dall’ormai incipiente cancrena, esso viene amputato.
I chirurghi e gli aiutanti che eseguirono l’operazione
comparvero come testimoni al processo successivo. Del
fatto per ora gli abitanti di Calanda evidentemente non hanno
notizia diretta. Il giovane Juan dice di vergognarsi a tornare
invalido al paese, e una volta ripresosi, nella primavera
dell’anno seguente (1638) diventa mendicante stabile a
Saragozza presso la cappella della di Nostra signora della
Speranza nella Cattedrale della Vergine del Pilar. Alla
fine, comunque, nel 1640, (tra il 4 e l’11 marzo) Juan torna a
Calanda. Ogni giorno si reca a mendicare nei paesi vicini.
Poi, pur con le grucce, vuole però rendersi utile e lavorare
nei campi. E nei campi resta dalla mattina alla sera, quel 29
marzo del miracolo. Gli era stato concesso, assicura Messori,
un regolare permesso a mendicare, che ne comproverebbe
l’onestà, ed era stato visto nei paesi vicini; ma sensazione
che si ricava da tutto ciò è che, ancora una volta, pochi a
Calanda avranno avuto modo di verificare con mano le sue reali
condizioni prima del miracolo. Resta insomma il sospetto che
le testimonianze dei calandesi, se in buona fede, si
potrebbero essere basate più sul sentito dire che su fatti
verificati oggettivamente da tutti. Ma arriviamo alla sera
dell’incredibile fatto. Nella casa dei Pellicer era ospite
un estraneo, un soldato che fu il primo testimone della gamba
ricresciuta. A sera, il "miracolando" Juan arriva a casa, e il
militare lo vede monco; alle dieci il giovane contadino va a
dormire in un’altra stanza, seguito poi dagli altri. Verso le
undici di sera il soldato vede spuntare dal mantello che
copriva il giovane non una, ma due gambe. Fermiamoci per
un piccolo esercizio di logica da "avvocato del diavolo".
Ammettiamo per un momento che non si tratti di un miracolo.
Come può rispuntare una gamba ad un monco? Tutti, dopo, sono
sicurissimi che la gamba c’è ed è ben reale. Se ne dedurrebbe
che la gamba c’era anche prima. Juan Pellicer poteva forse
essere un falso invalido che nascondeva la gamba (forse rotta
e poi guarita, forse rattrappita e un po’ deforme) sotto i
vestiti, estendendola poi quando dormiva o quando nessuno lo
vedeva? Non è cosa impossibile, soprattutto per una persona
magra. Ricordiamo che la rottura, le cure, l’amputazione,
erano avvenute lontano, che per due anni si era forse parlato
del figlio dei Pellicer monco, ma che di persona lo si era
visto (e molto poco) solo negli ultimi giorni. Torniamo al
soldato che scopre la gamba riattaccata. Ora, le reazioni da
attendersi da parte sua potrebbero essere state: "Razza di
imbroglione, finto monco! Guarda qui che in realtà di gambe ne
hai due!" oppure "Miracolo! miracolo!" I commenti dei
genitori a queste reazioni potrebbero essere stati: "E’ vero,
nostro figlio è un finto mendicante..." oppure "Si’, è un
miracolo, un miracolo!" Fatto si è che del misterioso
militare non si conosce il nome e non si hanno testimonianze
dirette. Invece, gli atti riportano le prime parole che il
giovane Juan pronunciò quando, svegliandolo da un sonno
profondissimo, il militare e i genitori gli annunciano che ora
egli ha due gambe. Le parole furono "Padre mio, perdonatemi!"
Ma come, di quali colpe chiedeva perdono? Ci saremmo
aspettati: "Miracolo, miracolo!" Messori ci spiega che
egli intendeva rifarsi "al Vangelo e le sue esigenze, delle
quali il perdono è il cuore". Non potrebbe essere invece che
egli volesse dire, a seconda di quanto i genitori fossero al
corrente della situazione da noi supposta: "Oh, padre,
perdonatemi di avervi mentito, di aver fatto scoprire
l’inganno, di avervi messo ora in una situazione
imbarazzante!" La mattina dopo il militare riparte; ma
dopo un altro giorno arriva il notaio Andréu, del paese di
Mazaléon (distante cinquanta chilometri), che era stato
avvertito del miracolo, pare, dai soldati di un drappello
passato per quel paese, e che si affrettò a recarsi a Calanda
per verificare. Messori ci assicura che ciò ci mette al riparo
da sospetti di campanilismo; è chiaro, però, che i testimoni
erano, per un notaio venuto da un giorno di cammino, dei
perfetti estranei; certamente gli mancava quella utile
conoscenza dei luoghi, degli usi e delle personalità coinvolte
nella sua indagine. (Eppure a Calanda vi era un notaio). I
primi e principali testimoni del fatto sono poi lo stesso
miracolato, la madre, il padre, i vicini e amici. Come
l’Autore ripete spesso, sia questo atto che il seguente
processo a Saragozza si svolsero sotto gli occhi vigili della
Santa Inquisizione, severissima verso i falsi miracoli, il che
conferirebbe loro una certezza "granitica". Una volta
invocato, quella notte fatale, un miracolo anziché un
imbroglio, resta da vedere quali avrebbero potuto essere le
risposte della famiglia Pellicer al notaio che cala da
Mazaléon, accompagnato da due sacerdoti e in tutta la sua
autorità, a prendere nota ufficiale di tutto: "Ma no, quale
miracolo, lo abbiamo fatto credere al militare per non
ammettere un inganno" oppure "Certo, è avvenuto davvero un
miracolo". Sarà vero che tutti ardevano d’amore per
l’Inquisizione; i giornali dell’epoca riportano comunque che
proprio il giorno precedente l’inizio del processo che ci
riguarda, ebbe luogo a Saragozza un’Autodafé dell’Inquisizione
(solenne cerimonia di abiura o condanna degli imputati), che
coinvolse molte persone, tra cui un nobile molto in vista che
ricevette pubblicamente duecento frustate e fu condannato a
diventare rematore sulle galere reali. Si diceva, dunque,
che a provvedere all’ufficializzazione del miracolo pensò poi
il processo, iniziato il 5 giugno su richiesta della
municipalità di Saragozza, ma in effetti effettuato a cura
della diocesi. Esso riprese e ampliò in pratica, in un
documento di 63 (+ 9) pagine, ciò che il buon notaio Andréu di
Mazaleon aveva scritto nelle sue poche righe. In quel
periodo, come ci racconta Messori, a Saragozza esisteva un
solo vescovo e una sola diocesi, ma due cattedrali con due
Capitoli: la Cattedrale del Pilar e la Cattedrale del Salvador
(La Seo). Tra le due istituzioni si era al culmine di una
diatriba furibonda "per questioni di precedenze e prestigio",
che richiese poi l’intervento del Papa e una apposita bolla
(nel 1676) per essere sedata. Dal processo, benché il
miracolo sembrasse essere avvenuto per intercessione della
Vergine del Pilar, fu escluso il Capitolo dei canonici proprio
del santuario del Pilar. Messori ne vede un’ulteriore garanzia
di imparzialità: perché riconoscere un miracolo alla
odiatissima parte avversa? Il discorso da fare forse è un po’
diverso; l’opposizione semmai poteva essere su chi avrebbe
avuto l’onore di tenere il processo, già con la ferma
decisione di rendere ad ogni costo ufficiale quello che
secondo tutti era ormai un miracolo, a ulteriore e totale
smacco degli avversari. La gamba riattaccata appariva, per
i primi giorni magra, contratta, bluastra. Il vescovo che poi
dichiarerà il miracolo, e Messori con lui, ci spiegano che il
vero prodigio consisteva nel riattaccare l’arto; poi, come per
non strafare, Dio lascia gli ultimi aggiustamenti alla natura.
Fatto sta che l’aspetto esile e malconcio di quella gamba
rispuntata fa proprio pensare a un arto rimasto inutilizzato
(ripiegato e nascosto?) a lungo. Dopo alcuni giorni, il
giovane si muoveva meglio, correva, e poteva portare il piede
fino alla testa (dunque era magro...). La gamba fu esaminata
da molti. Recava una cicatrice all’altezza della frattura, e
anche cicatrici preesistenti. Insomma, non era una gamba
"nuova", ma proprio la stessa di prima; questo pero’ non ci
sorprende troppo. Restano altre testimonianze molto
importanti e autorevoli. Sono quelle del chirurgo che eseguì
l’amputazione, di infermieri, e di persone che videro il
giovane mendicare sotto i porticati dell’ospedale e della
cattedrale per quasi due anni. Nell’immaginetta
oleografica che gli atti del processo ci offrono, il chirurgo
Estanga si ricorda perfettamente del giovane, dell’operazione,
lo riconosce, e così altro personale dell’ospedale. Ora,
questo potrebbe ovviamente essere vero, ma il quadro che
traspare implicitamente dalla descrizione dell’Ospedale di
Saragozza dà adito ad altre riflessioni. Messori lo
definisce come "uno dei maggiori stabilimenti sanitari eretti
in Europa" (L’edificio fu distrutto nel 1808 durante
l’invasione francese). Ci immaginiamo un grande numero di
medici, di malati, di cure. Attorno ad esso, e alla cattedrale
del Pilar, gravitavano forse molti mendicanti, tanto che la
loro figura era anche ufficializzata: Juan Pellicer stesso
ottenne la nomina a pordiosero de plantilla (mendicante [colui
che supplica "por Dios"] in pianta stabile). Insomma,
l’ambiente avrebbe potuto essere brulicante di malati,
pellegrini, mendicanti come una Corte dei Miracoli. Notare e
ricordarne uno in particolare potrebbe non essere stato così
facile. E’ qui - si domanda l’avvocato del diavolo - che
potrebbe essere avvenuto un errore, uno scambio di persona, un
imbroglio? E come? Tutto ciò che stiamo dicendo necessita del
condizionale e ha, ovviamente, un puro valore di speculazione.
Va ribadito con forza il fatto che l’identificazione
sicura di un individuo fu un problema molto difficile per le
autorità, e fu risolto solo nell’Ottocento quando vennero
adottati metodi scientifici: l’antropometria, l’esame delle
impronte digitali e soprattutto la fotografia apposta sui
documenti. Prima di allora, gli errori, gli scambi di persona
e l’incertezza sull’identità personale erano all’ordine del
giorno. Ammesso che esistano registrazioni ufficiali a suo
nome presso l’Ospedale di Saragozza (ma a differenza
dell’ospedale di Valencia, non se ne citano: forse distrutte
nel 1808), era costui il nostro Pellicer, o qualcun altro che
gli somigliava e che poi fu con lui confuso? Potrebbe il vero
Pellicer essersi inventato tutto, e magari non essersi mai
nemmeno rotta la gamba? Potrebbe, a Saragozza, avere suggerito
a una persona con una gamba da amputare di farsi passare per
lui, per poi approfittarne diventando un falso invalido con
permesso ufficiale? Juan Miguel Pellicer viene descritto
devotissimo alla Vergine e di salda ("granitica") fede; della
sua vita seguente non si sa quasi nulla di preciso (anche la
famiglia sparisce nel nulla), ma essa non sembra essere stata
troppo santa, visto che gli unici, e ultimi, documenti sicuri
si collocano tra il 1646 e 1647. Le autorità delle isole
Baleari chiedono che a Juan Miguel sia affiancato un tutore
che regoli meglio la sua condotta. Un suo cognato, che era con
lui in quel periodo finì addirittura in carcere; da qui forse
la leggenda che alla fine Juan Miguel finisse i suoi giorni
giustiziato. Bigotto o gaglioffo ? Resta da citare anche
il fatto che si sarebbe scavato nel luogo ove la gamba
amputata era stata seppellita nel recinto dell’Ospedale, e
avvenuto il miracolo, la buca fu trovata vuota. Messori,
ricordando l’aspetto bluastro e scarno della gamba
"riattaccata", ne trae la conferma che proprio di quella
sepolta si trattasse. A parte il fatto che, dopo due anni
sotto terra, dell’arto si sarebbero trovate ormai solo le ossa
- dovendo essersi il resto ormai putrefatto - questo vorrebbe
dire che davvero Dio si ridusse a eseguire un trucco da
illusionista che fa scomparire gli oggetti da un cappello per
farli ritrovare nella scatola. Essendo le ragioni di Dio
per definizione imperscrutabili, questo non è, naturalmente,
un argomento. Si vuole solo dire che sembra un tipico elemento
da leggenda o da favola. Piuttosto, sarebbe bene sapere se il
luogo esatto ove si scavò era stato registrato prima, al
momento della sepoltura, o se fu Pellicer a "farlo ricordare",
o che altro. Quanto siano influenzabili le sicurezze e i
ricordi dei testimoni lo si capì soltanto da quando nacque
come scienza la psicologia della testimonianza. Il fatto
non sembra risultare dagli atti del processo, ma è riportato
solo in un (come lo chiameremmo oggi) trafiletto di cronaca
appena precedente il processo medesimo. Per questo
procedimento qualcuno parla di "eccesso di garanzie", di
"prudenza di accertamento che sfiora lo scrupolo". Ci
chiediamo (...quante cose sarebbe bello sapere!) se la sua
forma, con tutte quelle firme di notai, procuratori e
testimoni, rifletta veramente la sostanza, o se esso non fu
che un esercizio di retorica, tipico di un mondo barocco che
Messori evidentemente adora, ma giudicato da altri ampolloso e
vacuo, "sudicio e sfarzoso". Ma non importa. Torniamo ai
24 testimoni e alla loro credibilità. LA prudenza
consiglierebbe di giudicare il miracolato stesso, i familiari
e gli amici (cinque), come testimoni "di parte". Le autorità
locali - civili e religiose - di Calanda (otto) come abbiamo
visto hanno evidentemente avuto poche occasioni di esaminare
da vicino la famosa gamba monca, visto che nei pochi giorni
tra il ritorno da Saragozza e la notte del miracolo, Juan
Miguel mendicava nei paesi vicini, o lavorava in un campo. Di
osti e carrettieri vari (sei) non possiamo dire. Di
Castéllon de la Plana (ove avvenne l’incidente), non figura
alcun teste, così come assente è lo zio materno. Comunque,
affermare che due anni prima il contadino aveva due gambe, e
che è la medesima persona che anche ora ne ha due, è poco
utile. I testi più importanti sono evidentemente coloro che
dovrebbero aver eseguito l’amputazione e quindi avere visto
con la massima chiarezza il giovane Pellicer prima con la
gamba incancrenita, e poi tagliata. Medici e infermieri sono
cinque; ma due sono di Calanda, cioè vedono Juan solo dopo il
miracolo, (e noi crediamo al fatto che la gamba, dopo il 29
marzo, c’era tutta). Restano tre medici di Saragozza: il
chirurgo Estanga, un altro medico e un praticante. I testi di
Saragozza sono dunque quelli chiave. Ebbene, due di essi (il
cappellano dell’ospedale e l’infermiere) nel dover riconoscere
Pellicer, sono gli unici ad usare la formula cautelativa "mi
pare". Semplice scrupolo di coscienza, indizio ulteriore
di totale onestà, o indizio di un possibile scambio di
persona? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai. Questi
pensieri sono forse un inutile esercizio di obiezioni
"pretestuose e insidiose" a un caso "inattaccabile". Eppure
talvolta, più che dare risposte, occorre porre domande. Lo
scetticismo potrebbe anche essere una virtù: in fondo San
Tommaso, che volle porre il dito nelle piaghe di Cristo
risorto, divenne santo lo stesso. Ma conviene invece
concludere in modo un po’ più lieve, citando una frase
attribuita a un politico che nessuno ha mai ritenuto non
essere un buon credente: Giulio Andreotti.
"A pensar male forse si fa peccato, ma qualche volta ci si
azzecca".
Tratto da Scienza &
Paranormale N. 29
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